STORIOGRAFIA E VICENDE RESTAURATIVE
di Anita Valentini
Nel luglio del 1897 Guido Carocci, all'epoca Ispettore dell'Ufficio Regionale per la Conservazione dei Monumenti della Toscana, durante i lavori di restauro che andava compiendo all'interno della Chiesa di San Felice gravemente danneggiata da un terremoto che aveva colpito due anni prima Firenze rinvenne un affresco dietro il settimo altare destro, eretto nel 1735 su commissione della Congregazione dei Benefattori del Santissimo Rosario.
Dopo aver protetto la pittura con una tenda per evitare che potesse ricevere danni ulteriori, il 20 luglio l'ispettore informò prontamente il Ministero della Pubblica Istruzione della scoperta avvenuta mentre riadattava "l'ultimo altare della parete destra entrando in chiesa", chiedendo l'autorizzazione a procedere al recupero di quanto ancora si trovava sotto vari strati di bianco.
La richiesta fu accettata e l'affresco con la Vergine Assunta tra gli Angeli e gli Apostoli che concede la sacra cintola a san Tommaso riapparve per opera di Dario Chini (lo zio del più celebre Galileo), il quale, in veste di "riparatore" al servizio dell'Ufficio Regionale, era in quel momento attivo al cantiere della Chiesa di San Felice.
Non venne accolta invece, dal Ministro Galimberti, la richiesta, inoltrata sempre dal Carocci, di poter procedere a un distacco dell'affresco e alla sua collocazione in qualche altro punto della chiesa per far accrescere, in tal modo, l'importanza dell'edificio, già ricco di opere d'arte'. Il superiore Ministero non cambiò idea neppure dopoché il Carocci ribadì la stessa proposta nelle pagine della sua rivista 'Arte e Storia', in cui a più riprese si era fatto assertore e sostenitore di quella metodologia dello strappo per il recupero e per una migliore fruizione degli affreschi ampiamente applicata proprio da Dario Chini, in quegli anni al culmine della sua fama e considerato, per la sua scaltrezza tecnica, tra i più sicuri operatori. L'anno 1897 non segnò, pertanto, la moderna epifania del dipinto, poiché gli venne addossato nuovamente l'altare settecentesco. Una decisione presa non solo per non turbare l'armonia dell'aula ecclesiale ma anche, probabilmente, per la mancanza dei necessari finanziamenti e,
forse, in considerazione del fatto che l'affresco si presentava in parte mutilo. Lo stesso Carocci denunciò lo stato dell'opera alla fine del secolo scorso quando scrisse: "Se si eccettua la mancanza di un tratto centrale prodotto dall'apertura di una buca, l'affresco è in generale in discreta condizione". Un'affermazione che oggi trova una sua chiara esplicitazione grazie all'odierno intervento restaurativo. L'incompletezza della pittura, infatti, era stata finora motivata con la messa in opera dell'altare barocco, la cui erezione, in verità, ben poco danno aveva arrecato al nostro dipinto.
Diversamente, le scarse memorie custodite in alcune antiche carte, insieme a quanto è possibile esaminare in situ, permettono di ripercorre correttamente le passate vicende.
Nel 1700, il Priore di San Felice, nel far ricostruire la porta del fianco della chiesa così come oggi si vede, fece spostare la stessa porta dal luogo dove Stefano Rosselli, nel suo "Sepoltuario" del 1654, l'aveva descritta: fra il sesto e il settimo altare della parete destra. Se la testimonianza seicentesca da l'ubicazione della uscita laterale ante 1700 fra i due altari non bisogna dimenticare che all'epoca il settimo altare in forme barocche era ancora a venire e che al suo posto doveva essere! una mensa di ben più ridotte dimensioni; questo spiega come, nel rintracciarla, l'apertura sia affiorata non fra i suddetti altari bensì "all'interno di un altare", il nostro.
Del vecchio accesso laterale, difatti, si ha un riscontro visibile nelle tracce di un passaggio murato nella facciata laterale esterna della chiesa che, come è apparso dalle misurazioni e tramite lo schema dei rilievi architettonici realizzati durante l'attuale restauro, all'interno corrisponde perfettamente con la mancanza del muro lamentata dall'Ispettore Carocci, la cui tamponatura è ancora avvertibile nella parete. La "buca" descritta dal Carocci, pertanto, altro non era che la tamponatura della più antica apertura della Chiesa di San Felice.
Quanto accaduto all'alba del XVIII secolo induce a dedurre che i passati reggitori del Monastero, noncuranti dell'affresco, presumibilmente fra XVI e XVII secolo, tagliarono la profondità della nicchia - come si può distinguere da quanto rimane delle figure dipinte nell'intradosso - e aprirono, su di una parete coperta a scialbo, un accesso laterale, la cui costruzione distrusse, in parte, la porzione inferiore della struttura muraria su cui si estendeva il dipinto della Madonna della Cintola.
In seguito, come sappiamo, la nuova porta del fianco provocò la chiusura della precedente apertura e diede la possibilità nel 1735 di erigere un settimo altare di considerevoli dimensioni.
Le vicende che nel corso dei secoli hanno visto protagonista l'antico dipinto murale spiegano, pertanto, come mai fosse sfuggito in passato all'interesse di eruditi quali, primo fra tutti, il Richa.
Il desiderio di Guido Carocci di far rivivere l'affresco venne realizzato circa trent'anni dopo, quando, a causa di un incendio scoppiato nella notte fra il 22 e il 23 gennaio del 1926, fu necessaria una ristrutturazione complessiva della chiesa che ebbe compimento solo nel 1935.
Nel quadro dei lavori improntati a un revival neomedievale, che comportarono per le cappelle del transetto la demolizione degli altari cinque-settecenteschi, anche la nostra cappella fu oggetto di interesse: rimuovendo l'altare del XVIII secolo, venne trasformata nello stato attuale per rendere finalmente leggibile e scoperto l'affresco.
Sempre nel corso dell'intervento restaurativo venne riaperta la monofora gotica soprastante la cappella.
Un frammento di affresco, allora rinvenuto sopra la lunetta dell'altare nelle vicinanze della monofora, seppure poco esteso, fa supporre una più ampia stratificazione decorativa che ab origine doveva esistere anche fuori della nicchia affrescata dell'altare. Per essa è stato possibile ipotizzare la presenza di una estesa redazione ad affresco che andava a occupare la parete intorno all'altare, sviluppandosi in verticale e offrendo episodi tratti dalla Vita della Vergine. L'altare risulta inquadrato da una cornice architettonica dipinta che si doveva estendere nelle spalle e nell'estradosso, come sembrano testimoniare le tracce di un capitello dipinto nello spessore del muro a destra, alla base della centina, dove, tuttavia, si intervenne in sede di restauro. Infatti, nell'occasione della ricomparsa dell'affresco, Amedeo Benini, noto decoratore ma anche restauratore più volte impegnato in importanti cicli pittorici, nel 1930 operò un vero e proprio ripristino "in stile'. Secondo quanto i documenti hanno
tramandato e l'attuale restauro ha evidenziato l'intervento del Benini sull'originaria stesura pittorica consistette in una leggera pulitura una fermatura del colore ("abbassando tutte quelle parti che il colore si era perso"), nel rifacimento delle parti in oro ("a oro buono") e nella tamponatura di alcune crepe con calce e stucco. La sua attività si focalizzò principalmente su ben altro. Al Benini si devono infatti gli ampi e radicali rifacimenti in corrispondenza della oramai nota apertura descritta dal Carocci, che, una volta tamponata, offriva una estesa area su cui intervenire nel ripristino.
Il Benini dipinse a fresco e a tempera, lavorando con tecniche e forme tipicamente "integrative', secondo un concetto assai diffuso in quel tempo: la figura del Santo a destra e gran parte della formella centrale con specchiatura incorniciata da motivi architettonico-decorativi sono opera sua. E sempre a lui si deve l'integrazione di due più limitate zone che, quasi speculari, inquadrano esternamente i due gruppi figurativi degli Apostoli''.
L'affresco venne così restituito alla devozione dei fedeli e al pubblico godimento dopoché anni prima era già stato dato inizio alla sua storiografia. Nel riproporre l'affresco alla critica, il Carocci lo aveva ricondotto, genericamente, alla maniera di Agnolo Gaddi, sebbene sia abbastanza distante dal raffinato stile gaddesco. Il dipinto, invero, evidenzia solo una lontana eco di quell'elegante linguaggio gotico-fiorito, d'altronde riscontrabile, quale segno di una cultura eclettica, presso numerose officine pittoriche fiorentine del XV secolo, in parallelo e unitamente al nuovo dettato rinascimentale. Ed era proprio all'interno di una di queste botteghe del Quattrocento fiorentino che, come vedremo, prese avvio l'idea compositiva del nostro dipinto.
Intanto, sulla scia del Carocci e fino alla fine degli anni Settanta del Novecento, la storiografia critica ha menzionato l'affresco sotto l'etichetta generica di opera fiorentina dell'ultimo Trecento, anche dopo che i Paatz avevano ravvisato, per primi, un suo inserimento nel gruppo delle opere della scuola di Bicci di Lorenzo, fissandone, giustamente, l'esecuzione nella prima metà del XV secolo"; Caterina Zappia, ribadendone l'attribuzione alla compagnia artistica di Bicci, lo ha datato fra il XIV ed il XV secolo, leggendovi "delle particolarità stilistiche della pittura fiorentina del tardo trecento" a cui si unirono delle ridipinture posteriori.
Più di recente Lucia Meoni, assegnando l'affresco a Bicci di Lorenzo, ha accennato a una sua possibile collaborazione, per il raffinato goticismo di alcune figure, con uno dei più importanti allievi di Lorenzo Monaco, Rossello di Jacopo Franchi, con il quale il Bicci lavorò negli affreschi della Cattedrale di Santa Maria del Fiore.
Si deve a Cecilia Frosinini il collegamento dell'opera con l'attività di un artista formatosi al fianco di Bicci, Stefano d'Antonio di Vanni. Iscrivendo l'opera nel catalogo del pittore, ha insistito sull'attendibilità di collocarla verso il 1430, quando Stefano era una figura attiva della "compagnia' di Bicci di Lorenzo, sulla base di alcune rispondenze stilistiche che l'apparentano alle predelle con scene dell'Infanzia della Vergine, allocate oggi alla Walters Art Gallery di Baltimora e attribuite unanimemente dalla critica a Stefano d'Antonio.
Tuttavia la stessa Frosinini nel legare il dipinto murale al nome di Stefano d'Antonio, ha trovato inconsueti, per lo stile del pittore, alcuni sinuosi e gonfi andamenti, talune cadenze e un "maggiore turgore", che ha giustificato in presenza di una opera di dimensioni maggiori rispetto alle tavolette da lei portate a confronto; la studiosa ha inoltre ricordato come Anna Padoa Rizzo abbia scorto gli stessi caratteri dell'affresco di San Felice nei frammentar! cicli di affreschi della cripta del Convento domenicano dei Santi Jacopo e Lucia a San Miniato (1433) e in quelli di Sant'Onofrio di Fuligno a Firenze (1431-1434; le sinopie si devono a Bicci di Lorenzo)". La presenza di Stefano d'Antonio nell'opera di San Felice può essere senz'altro convincente, come ha proposto la Meoni intervenendo ancora sull'argomento e accettando la datazione al 1430, se gli si assegna il ruolo di prezioso collaboratore del più anziano Bicci di Lorenzo, con cui rimase fino al 1434.
Stefano d'Antonio infatti, rispetto al ductus generale del nostro affresco, si esprime in modo più secco e meno dilatato nel panneggiare le vesti ed è solito condurre con minor raffinatezza i particolari decorativi. A Stefano, proprio in base a tali caratteristiche a cui dobbiamo aggiungere una ripetitività nel siglare i lavori con dei tipi fisionomici dai profili protesi, di scorcio e definiti da forti lumeggiature, forse spetterebbe - come ha suggerito la Meoni - la paternità del primo Apostolo del gruppo a sinistra dell'Assunte, che ha un preciso riscontro nella testa dell'Angelo Annunciante, nel frammento d'affresco sopra la lunetta. L'impianto compositivo del dipinto appare invece ideato dallo stesso Bicci, maestro e capo bottega, prolifico e stimato artista, espressione, in piena Rinascenza, della cultura gotico fiorita, che seppe tradurre con grazia, sposandola, con esiti più o meno fortunati, a quanto le novità del codice rinascimentale imponevano.
Nella nostra opera, infatti, l'impronta quattrocentesca è suggerita da Bicci di Lorenzo quando cerca di accordare l'elemento arcaizzante della mandorla col tentativo di risolvere la scena in senso prospettico, attraverso la figurazione del sepolcro.
Il tema della Madonna della Cintola era caro a Bicci che lo propose nello stesso periodo nella parte centrale di un trittico per la Chiesa di Santa Maria a Castagnolo di Lastra a Signa ed era del resto una iconografìa già affrontata nella bottega paterna, come testimonia la tavola per la chiesa di Santo Stefano a Empoli oggi nel Museo della Collegiata.
Al di là del breve excursus storico-critico va ricordato che, dopo le modifiche causate dal rimaneggiamento della chiesa, a distanza di poco meno di cin-quant'anni, nel 1976 l'affresco ha dovuto sostenere un intervento che si limitò a ridare coesione ad alcuni pericolosi sollevamenti presentatisi sulla sua superficie. Tuttavia, con il passare del tempo, la semplice manutenzione si è rivelata insufficiente; prima dell'attuale restauro sia l'opera originale che l'integrazione del Benini presentavano lesioni e imbianchimenti, sollevamenti ed esfoliazioni che rendevano sempre più incoerente lo strato pittorico con il suo intonaco, che appariva fratturato in più parti. La frattura più profonda interessava all'incirca la metà inferiore della superficie dipinta, partendo dall'Angelo alla sinistra della Madonna Assunta e dirigendosi con andamento diagonale fino in basso a sinistra, quasi a segnare il confine superiore dell'area muraria mancante fino al restauro del Benini. Altre crepe erano leggibili alla destra
della figura della Madonna, lungo la sua veste, al centro del sepolcro e alla base del gruppo di Apostoli affrescati a destra.
E ulteriori situazioni di degrado si presentavano a una lettura ravvicinata della superfìcie, che mostrava accentuati fenomeni di sollevamento e di perdite, al punto che si rese necessario approfondire le ricerche facendo interagire le analisi chimico fisiche con altre tecniche sia di tipo spettroscopico che di tipo cromatografico.
Ne è venuta fuori una lettura che ha messo in evidenza gli aspetti originar! e quanto dovuto alle vicende restaurative storicamente conosciute.
Il generale oscuramento che mostrava l'affresco era causato non solo dall'ammorbidimento, per l'iniziale stadio di solfatazione, dell'intonaco e del film pittorico che aveva permesso il fissaggio del pulviscolo e delle particelle carboniose presenti nell'aria, ma anche dal degrado ossidati vo di materiale organico.
L'affresco risultava infatti appesantito per la presenza in quantità elevata di ossalati prodotti non da un legante originario dei pigmenti bensì dalle alterazioni di un protettivo steso sulla superficie per il suo consolidamento e nutrimento; dalle alterazioni, quindi, del cosiddetto 'beverone' a base di sostanze organiche di tipo proteico rivelatesi facenti parte della famiglia delle colle animali (alta quantità di idrossiprolina). Un protettivo certo applicato sulla superficie durante i restauri dell'inizio del Novecento per vivificare e consolidare il colore - come insegnavano i manuali dell'epoca - dopo una pulitura sicuramente difficoltosa.
A luce radente si è potuto individuare la progressione delle 'giornate' di lavoro; dall'alto verso il basso ne sono state individuate nove di grandezza diversa a seconda delle complessità dell'esecuzione pittorica: di dimensioni ridotte per compiere il volto della Madonna e i volti di alcuni Apostoli, più ampie per definire le vesti. Le 'giornate' sono per lo più unite in coincidenza delle linee di contorno dei manti delle figure.
Il dipinto fu eseguito abbastanza velocemente ed è possibile supporre, come la critica in passato ha ipotizzato, che Bicci di Lorenzo si sia giovato di collaboratori. Lo denoterebbero i volti degli Apostoli, così come quelli degli Angeli, molto simili fra di loro e molto stereotipati su un unico modello prestabilito, realizzati con pennellate svelte e a discapito di una loro resa espressiva e distinta.
Bicci traspose sulla sinopia, di cui sono apparse tracce, un intonaco piuttosto 'spento', costituito da calce e sabbia, adottando nella stesura dei pigmenti una tecnica mista: sono stati dipinti a fresco gli incarnati e i panneggi, mentre le finiture sono state date a secco per poter raggiungere rapidamente l'effetto cromatico desiderato.
Il colore della malta preparatoria è stato utilizzato con accorgimento 'a risparmio' in alcune zone, soprattutto per il sepolcro, rialzando con piccoli tocchi di bianco di calce solo in prossimità dei contorni essenziali.
Ed ancora, l'artista si è servito della battitura delle corde per segnare l'architettura del sepolcro e per mettere in asse la figura di San Giovanni Battista. Incisioni dirette sono presenti lungo la cornice architettonica dell'arco che inquadra la composizione pittorica, definendone il campo, e nel bordo della doratura delle aureole dei personaggi raffigurati; queste ultime furono realizzate - come era prassi - al fine di impedire le possibili colature della doratura.
Le dorature, a missione oleosa, visibili sulle aureole eseguite a rilievo e nelle decorazioni dei manti, risalgono, come sappiamo, all'operato di Amedeo Benini, il quale intervenne anche con dei bottoni in cera dorata per decorare il manto dell'Assunta.
Quanto si riferisce all'intervento di 'rifacimento' del Benini è stato conservato poiché considerato presenza storica ormai inscindibile dall'aspetto assunto nel corso del tempo dalla cappella, a eccezione però delle sue stuccature, che poco rispettose del dipinto originale lo avevano in parte invaso, arrivando, come ha evidenziato l'attuale restauro, a montare sopra l'antica pittura anche per qualche centimetro, soprattutto nell'intradosso della lunetta. Si è pertanto proceduto al taglio delle stuccature del Benini, lasciando solo un leggero dislivello per il loro riconoscimento.
